mercoledì 15 ottobre 2014

Gli amori folli (Les Herbes Folles) di Alain Resnais

Un film di Alain Resnais. Con Sabine Azéma, André Dussollier, Anne Consigny, Emmanuelle Devos, Mathieu Amalric.  Titolo originale Les Herbes Folles. Drammatico, durata 104 min. - Francia, Italia 2009. IMDb 6,2 
Come spesso accade con i «grandi vecchi»-e Resnais quando presentò Gli amori folli l’anno scorso a Cannes (premio speciale della giuria) stava per compiere ottantasette anni-l’età e i riconoscimenti ottenuti finiscono per trasformarsi in una carica «libertaria» che cancella imposizioni e regole, paure e limiti, dando il là a opere che finiscono col sorprendere per invenzione e libertà. Proprio come succede con questi amori folli, «infedele» titolo italiano di un originale (Les Herbes folles) che spiega meglio l’immagine ricorrente nel film delle erbacce selvatiche che nascono dove meno te lo aspetti, nelle più inaspettate fessure del cemento stradale.
 
Per Resnais è una poetica ed eloquente metafora dell’imprevedibilità delle azioni umane, di cui cercherà di dare una altrettanto poetica e «imprevedibile » dimostrazione con i casi che un bel giorno fanno incrociare il destino di Marguerite Muir (Sabine Azéma) e Georges Palet (André Dussollier): lei subisce lo scippo della borsa, lui ritrova il portafoglio abbandonato dallo scippatore, lei telefona per ringraziare, lui vorrebbe qualche cosa di più, almeno un incontro...
 
Ma si ingannerebbe lo spettatore se dopo questo inizio si aspettasse un qualche tipo di evoluzione verso il melodramma amoroso. Così come sono destinati a restare sospesi e indeterminati gli indizi che possono far pensare a una qualche «perversione» di Georges, costretto a fare ameno dei suoi diritti elettorali e preoccupato che il poliziotto a cui ha riconsegnato il portafoglio possa averlo riconosciuto. Che cosa si nasconde nel passato di Georges? Perché passa i suoi giorni a casa senza lavorare? Perché la moglie (Anne Consigny) sembra non preoccuparsi più di tanto del desiderio del marito di conoscere la proprietaria dei documenti che ha ritrovato? Perché la derubata, che scopriremo vivere da sola, fare la dentista e avere la passione, oltre che il brevetto, per il volo non è infastidita più di tanto delle attenzioni di Georges? E anzi cerca di instaurare uno strano rapporto con la moglie dell’uomo?
 
In un film «normale» sono tutte domande a cui lo spettatore si aspetterebbe prima o poi di ottenere una risposta, o comunque di trovare delle tracce che possano indirizzarlo sulla strada della soluzione, ma con Resnais è fatica vana. Persino il finale è lasciato in sospeso, con lo sberleffo dell’ultimissima scena, dove una bambina (di cui ignoriamo l’identità) chiede alla madre se, diventando un gatto, potrà anche lei mangiare i croccantini.
 
Per tutta la sua carriera il regista bretone si è fatto un dovere di confondere le piste e ingarbugliare le tracce. E non certo per il gusto della sorpresa fine a se stessa. A ripensare ai suoi film, anche quelli più ostici e difficili, non c’è mai niente di gratuito, di fine a se stesso: mescolare i piani della memoria e del ricordo, del tempo e dello spazio è servito a Resnais per togliere allo spettatore le certezze che un cinema fin troppo codificato aveva instillato. 
Difficile identificarsi con uno dei suoi personaggi, difficile dividere con precisione i sogni dalla realtà, il passato dal presente: tutto serve per distruggere le sicurezze che il «realismo» del cinema ha reso lingua universale. Anche il racconto del narratore, che invece di spiegare moltiplica le domande. No, Resnais non ci ha mai creduto e a maggior ragione non ci crede in questo ultimo film, dove il gioco delle sorprese e dei ribaltamenti diventa a un certo momento vorticoso, labirintico, inestricabile.
Con tutti i rischi che questo «gioco » comporta. Perché se chiediamo al cinema di farci dimenticare la logica della vita e siamo disposti a farci guidare verso terreni imprevedibili, allora la sorpresa può trasformarsi in piacere. Ma se il gusto un po’ surreale e iconoclasta di «distruggere » la realtà come la conosciamo ci prende la mano (e qui il sospetto fa capolino più di una volta), se le domande si moltiplicano (quasi) all’infinito e le risposte non arrivano mai, allora il rischio è quello di sentirci di fronte a un’intelligenza di cui sfuggono le ragioni. E il piacere lascia il campo a un sentimento di rispettosa estraneità.
 
Corriere della Sera - Paolo Mereghetti

30 aprile 2010

lunedì 6 ottobre 2014

Un tocco di Zenzero di Tassos Boulmetis

Un film di Tassos Boulmetis. Con Georges Corraface, Tassos Bandis, Basak Köklükaya, Ieroklis Michaelidis, Renia Louizidou. Titolo originale Politiki kouzina. Drammatico, durata 108 min. - Grecia, Turchia 2003. IMDb 7,6
Fanis,  insegnante di astrofisica appassionato di cucina e di spezie, narra la sua storia. Nato e cresciuto a Costantinopoli, il piccolo Fanis trascorre il suo tempo nella bottega del nonno, mercante di spezie. Osserva i clienti, impara a riconoscere gli aromi dai mille odori e sapori e i loro segreti, e conosce la piccola Saime, compagna di giochi nella soffitta polverosa. 
 
Il nonno Vassilis lo incanta con le strambe lezioni di astronomia a base di spezie. Un mondo magico e affascinante di cui non si dimenticherà più,un mondo di odori e di colori cui il nonno ha dato simbologie astrali. L’insegnamento dell’astronomia passa, infatti, nelle parole del nonno, attraverso lo studio delle proprietà del pepe e dello zafferano, del loro valore e del loro utilizzo. Fanis impara a conoscere gli elementi e rimane affascinato dalla possibilità di poterli unire e mischiare per creare nuovi universi. Fanis in fondo vorrebbe utilizzare questa abilità anche nella vita di tutti i giorni, vorrebbe controllare gli eventi e gestirli con cognizione di causa.
"Il pepe... è piccante e brucia, proprio come il sole." - gli racconta il nonno e gli descrive anche gli effetti delle spezie sull'animo umano:
"Il sale… va aggiunto nelle dosi necessarie per insaporire la vita di ognuno.
La cannella… è dolce amara, proprio come una donna. La vita, come il cibo, richiede sale…
Sapori dolci e speziati possono essere mescolati in diverse maniere: combinati assumono sfumature particolari impossibili da trovare se usati da soli."
Fanis appartiene ad una famiglia greca in Turchia, sullo sfondo dei continui scontri tra i due paesi, dal pogrom del 1955 (in cui i greci furono cacciati da Istanbul), attraverso la crisi di Cipro fino all'attuale pacificazione.
Il padre sarà costretto dall'Ufficio Immigrazione, che non rinnova il permesso di residenza né a lui né al resto della comunità greca abitante a Costantinopoli, a lasciare Istanbul per un ritorno forzato in madrepatria e tutto questo in risposta ai fatti di Cipro. Da quel momento la sua famiglia vivrà in una situazione paradossale: sarà considerata greca dai turchi e turca dai greci. L'addio a parenti e amici di Costantinopoli e sopratutto all'amatissimo nonno sarà molto doloroso. 
Fanis dovrà lasciare anche Saime, il suo primo e grande amore e sarà preso da una grande malinconia e si sentirà estraneo alla nuova patria. La cucina e, più precisamente, l’atto del cucinare diventano l’unico modo per mantenere vivo il ricordo delle persone care abbandonate di là dal confine, e lo farà a tutti i costi, preoccupando la famiglie. Per lui cucinare rappresenta il bisogno estremo di comunicare con il proprio passato mantenendolo vivo, la paura di perdere la propria identità, ma anche un estremo bisogno di controllo sulla realtà, sulla materia. Cucinare è il suo piccolo universo rappresentato dagli ingredienti da mescolare armoniosamente. 
 
Le sue qualità di cuoco sono straordinarie. L’odore delle spezie e dei piatti preparati gli ricordano il passato, il nonno e la sua amata; i gesti, il dosare con le dita qualche polvere, sono come un codice segreto di intesa e di appartenenza, lo strumento per richiamare un mondo perso in modo traumatico. Studierà astronomia ed è affascinato dalla perfezione e dall'ordine, dalle regole  precise, che regolano sia la cucina che le galassie. 
Scriverà alla sua amica profumando con le spezie le cartoline.
I genitori, però, preoccupati per la sua salute, vorrebbero sottrarlo a questa sua passione e Fanis si rinchiude in bagno nell’attesa, sempre vana, dell’arrivo del nonno. Crescerà senza rivedere né il nonno né Saime.

Si decide a volare a Istanbul solo dopo la notizia dell’aggravarsi delle condizioni di salute del nonno. Al funerale incontra Saime, che si è sposata, ma è in crisi con il marito. La speranza rinasce in lui e accetta una cattedra in città. Il destino, però, ancora una volta gli impedisce di coronare il suo sogno d’amore, perché Saime parte per Ankara con il marito. Fanis si rifugia nella bottega abbandonata del nonno, circondato da spezie e pianeti.
La cucina nel film è metafora della vita. Il cibo e la cucina sono il veicolo tramite il quale raccontare l'amore di una gente per la propria terra, per i propri valori. I brillanti dialoghi rimandano sempre al cibo e o le  pietanze scandiscono ogni momento della vita del protagonista e dei suoi bizzarri parenti.Ogni avvenimento importante è un'occasione per ritrovarsi tutti insieme in cucina a preparare i piatti tipici della loro tradizione
Grande attenzione per i riti ed i gesti, dal dosaggio di ogni spezia, alla disposizione dei piatti sulla tavola, sino al posizionamento sapiente dei commensali. Il cibo non è quindi soltanto un mezzo di sostentamento, ma un magico strumento per influenzare la vita. Il cibo e la cucina sono un mezzo di comunicazione, l’unico valido per il protagonista, e come rifugio, come consolazione, come droga, olfattiva che salva da una realtà spesso dura. 
A volte bisogna usare le spezie sbagliate per ottenere l'effetto desiderato. Aggiungere qualcosa di diverso. Il cumino, come dire... è una spezia forte, ti aggredisce, induce le persone a chiudersi. Lo zenzero è delicato e pungente, e spinge a guardarsi negli occhi". (Vasilis)
Il regista Tassos Boulmetis, infatti, è un greco nato proprio a Istanbul, nel 1957, trasferitosi poi in Grecia all’età di 7 anni, e ha inserito nel film molti riferimenti autobiografici. Come il protagonista del suo film, inoltre, ha alle spalle studi scientifici (fisica), prima di approdare allo studio del cinema all’Ucla, in California, grazie a una borsa di studio dell’Onassis Foundation. Dopo un apprendistato televisivo, ha realizzato Dream Factory, che ha fatto incetta di premi in diversi festival. Sceneggiatore, produttore e regista, Boulmetis è anche autore degli effetti visivi speciali del film Un tocco di zenzero, che in Grecia è stato uno dei maggiori successi cinematografici nazionali. Boulmetis è anche il primo presidente della Hellenic Film Academy.

sabato 4 ottobre 2014

War Horse di Steven Spielberg

Un film di Steven Spielberg. Con Emily Watson, David Thewlis, Peter Mullan, Niels Arestrup, Tom Hiddleston, durata 146 min. - USA 2011. - Walt Disney
Joey è un puledro esuberante, cresciuto libero e selvaggio nella campagna inglese. Separato dalla madre e acquistato per trenta ghinee da Ted, un ruvido agricoltore col vizio della birra, è destinato all'aratro e a risollevare le sorti della famiglia Narracott. Addestrato da Albert, il giovane e ostinato figlio di Ted, Joey ne diventa il compagno di avventura inseparabile almeno fino a quando i debiti e la guerra non chiederanno il conto.
Venduto dal padre per far fronte all'affitto della fattoria, Joey diventa cavallo di cavalleria al servizio di un giovane capitano inglese, che promette ad Albert di prendersene cura e di riconsegnarlo a conflitto finito. Ma la guerra, cieca e implacabile, falcerà la vita dell'ufficiale e abbandonerà il cavallo a se stesso.
Galoppando da un fronte all'altro e attraversando l'Europa della Grande Guerra, Joey tocca la vita e favorisce la sorte di soldati e civili. Albert intanto, raggiunta la maggiore età, si arruola volontario per la Patria e per quel cavallo mai dimenticato.
Partiamo dal 'giudizio', War Horse è un film sconsolante e minore. Un film con una voglia di semplicità che fa rima con superficialità, che intende la messa in scena (solo) come scenografia, impiega in maniera evocativa e incalzante la banda sonora e musicale, è incapace di colmare spazi e personaggi di un valore metaforico. I suoi sentieri, arati o selvaggi, sono lontani dalla sensibilità formale di John Ford e prossimi a un melodramma familiare, pieno di ostacoli, dipartite e struggimenti. Eppure importa capire che cosa emerge dietro il kolossal e la grandeffettistica, dietro l'aspetto e la scrittura molto (troppo) americani.
War Horse rimette in circolo il conflitto, muovendosi sul confine incerto che separa e unisce il fascino spettacolare della guerra dal suo irremovibile orrore. Per Spielberg si tratta daccapo di congiungere il percorso della Storia (qui la Prima Guerra Mondiale) con la narrazione e il punto di vista del singolo. Niente di nuovo sul fronte hollywoodiano, certo, ma se quel singolo da salvare sullo sfondo di una carneficina è un cavallo la questione si fa più interessante. Secondo titolo zoofilo della filmografia spielberghiana, dispensando i sauri di Jurassic Park, clonati e riportati artificialmente in vita in un contesto ecologico mutato,
War Horse fa il paio con Lo squalo, lavorando sull'archetipo dell'altro e giungendo alla medesima conclusione: la bestia al cinema agisce soltanto per essere uccisa. Squali, balene, gorilla incarnano sullo schermo l'alterità, la minaccia, il pericolo da sopprimere, esorcizzare, eliminare. Tuttavia il destino di Moby Dick o King Kong lo sopportano pure i Lassie, i Rin Tin Tin o qualsiasi altro animale antropomorfo della Disney, la cui disinvolta omologazione con quello che noi siamo, dimostra una volta di più la rimozione della diversità di cui la bestia è naturalmente portatrice.
Il film di Spielberg, sprofondato con gli zoccoli nel fango delle trincee, attribuisce al suo protagonista equino valori e pulsioni umane secondo un modello classico che viene da Esopo e da Fedro. Se lo squalo di Amity Island nuota nel mare del perturbante e rappresenta uno spietato predatore da abbattere, il cavallo del titolo cavalca le praterie del meraviglioso e sviluppa un rapporto privilegiato con gli uomini che incrocia e che lo scampano alla morte. Il personaggio Joey frena l'istintività a vantaggio delle potenzialità simboliche, sfruttate dal regista in maniera esplicita attraverso immagini che scadono nel quadretto didascalico. Le visioni dell'animale assumono connotazioni drammatiche o ricreative, rispecchiando la condizione del 'proprietario' o della circostanza di turno. Regista del movimento, Spielberg (ri)trova se stesso e la lirica bestialità di Joey dentro la battaglia e una sequenza epica che commuove e turba, avviando una cavalcata febbrile interrotta nella 'terra di nessuno', tra le trincee avversarie e nell'abbraccio straziante del filo spinato.
Candidato all'Oscar insieme a The Artist e Hugo Cabret, War Horse condivide coi più meritevoli concorrenti le origini del cinema, dove insieme al silenzio e alla fantasmagoria, troviamo il cavallo, (s)oggetto delle prime analisi cronofotografiche del movimento di Muybridge. Un cavallo da corsa pronto a solcare lo spazio selvaggio del West e del western a venire.
Da MYmovies

martedì 30 settembre 2014

The Selfish Giant di Clio Barnard

Un film di Clio Barnard. Con Conner Chapman, Shaun Thomas, Sean Gilder, Siobhan Finneran, Steve Evets. Drammatico, durata 93 min. - Gran Bretagna 2013.

Ci sono bambini per cui non sembra esserci posto nel mondo. Nati in famiglie cariche di problemi, vengono lasciati a se stessi. La scuola se ne sbarazza appena può e per loro non esiste che la strada e quello che questa può offrire loro.
In questa situazione sono  Arbor e l'amico Swifty, protagonisti del film The Selfish Giant, per loro non esiste infanzia. Swift oltretutto è di etnia gitana e i suoi sono considerati inferiori anche da chi sta al fondo della scala sociale, ultimi tra gli ultimi, disprezzati e mai accettati né integrati dalla società.
I due imparano presto l’arte di arrangiarsi, cercando di entrare nel mondo degli adulti che, invece di prendersi cura di loro, sono pronti a sfruttarli e ad usarli.
Siamo in una Inghilterra degradata in cui vivono famiglie di povera gente, di miseria materiale e morale i cui bambini sono le vittime innocenti di padri violenti e alcolisti e senza un lavoro, di madri depresse e disperate.
 
La vita di Arbor e del suo amico Swifty diventa quindi una quotidiana lotta per la sopravvivenza. E’ così che incontrano un losco individuo per cui si dedicano al  “commercio” di cavi elettrici e metallo.
Fin dalle prime inquadrature si comprende quanto i due giovani protagonisti siano destinati ad essere le vittime di un mondo che ha perso o non ha mai trovato dei valori. Perché così è un mondo che non sa prendersi cure delle generazioni future, che li abbandona al loro destino, che li rifiuta e li mette ai margini.
Il film ha vinto l’Europa Cinema Award, ha girato ancora nei giardini festivalieri più importanti, ma soprattutto è uscito nelle sale lasciando stupefatto il pubblico del Regno Unito. The Selfish Giant di Clio Barnard è un adattamento spietato della breve novella di Oscar Wilde, modernizzato e vissuto in quella periferia inglese senza pietà a cui ci hanno abituato Ken Loach e Shane Meadows, dove due bambini hanno solo se stessi a cui aggrapparsi per sopravvivere.
Clio Barnard cita Oscar Wilde; infatti riprende il titolo da un suo racconto per l’infanzia, Il gigante egoista, che terrorizza e attrae i bambini. Il "gigante egoista" è un rivenditore di ferraglia, che si trova ad assumere (in nero ovviamente) i due quattordicenni.  Il biondino e smilzo ma scaltro Arbor e il suo amico più robusto e sensibile Swifty iniziano la loro attività e trafugano tra i rottami il rame dalle centrali elettriche incustodite.
Ogni mattina, anziché andare a scuola, i due salgono su un carro arrugginito trainato da un cavallo che gli fornisce in prestito il gigante per caricarsi di ferraglia e guadagnarsi la giornata. I due ragazzi percorrono ogni giorno con un carretto le lande desolate intorno al loro paesello in cerca di rifiuti o qualcosa da rubare e rivendere a quell’orco che li usa e li sfrutta. 
La centrale elettrica con i suoi cavi sta lì a tentarli, sta lì maestosa a dominare il paesaggio in cui si muovono i personaggi, mostro pericoloso ma che  attrae, potenziale occasione di arricchimento con tutto quel rame da rubare e insieme pericolosa minaccia mortale. Chi tocca i fili muore, letteralmente.
 
Swifty, intanto, scopre il suo grande amore per i cavalli e vorrebbe dimostrare la sua abilità come fantino: il loro datore di lavoro ne possieda alcuni, che vengono impiegati in corse clandestine organizzate per la strada, alle quali il ragazzo vorrebbe partecipare come sfidante.
Clio Barnard la regista, ha seguito questi due bambini in tutta la loro storia, ci ha fatto conoscere i loro pensieri, i loro sentimenti e le loro scelte. Ne è venuto fuori un ritratto assolutamente reale.
Il racconto è essenziale, privo di retorica, duro che narra, momento dopo momento, le azioni dei suoi protagonisti. Di loro percepiamo quella disperazione che nasce dal disagio affettivo, da una vita troppo difficile e piena di insidie che si trovano ad affrontare da soli, senza nessuna guida né consiglio, quella disperazione che si trasforma ogni giorno che passa in rabbia.
Il film drammatico sfocia nel dramma, quello che consentirà al gigante di fare un pur tardivo esame di coscienza e di ammettere tutte le proprie responsabilità nei confronti di due ragazzini che sognavano una via d'uscita dal buio.
Arbor e Swifty appartengono alla categoria di molti ragazzi e bambini invisibili ai nostri occhi che pur esistono numerosi e che spesso ci passano accanto.

Un cinema, quello della giovane regista inglese Clio Barnard dedicato agli umili e ai disperati, che non sfora  mai nel  sensazionalismo e soprattutto in un fastidioso pietismo. The selfish giant è un film molto riuscito sulle amarezze di una vita sempre in salita di molti ragazzi lasciati a se stessi in uno degli stati più emancipati del mondo occidentale, che vive ancora oggi di espedienti. Girato nel Regno Unito è parlato con lo stretto idioma locale che ne rende necessario la sotto titolatura.

Un film bello e toccante come sanno essere le produzioni inglesi quando hanno come protagonista lo strato sociale più basso e proprio per questo più vero e schietto. Un film inquietante commovente nel senso che fa breccia nella nostra indifferenza, che pone tante domande senza dare comode risposte.
Il gigante egoista, una delle fiabe scritte da Oscar Wilde e contenuta all’interno de Il principe felice e altri racconti, è una storia triste su di un Gigante geloso del suo giardino che per tanto tempo ha cacciato i bambini dal suo dominio, per poi riaccoglierli e accorgersi del tempo che ha perduto a corrergli contro. Il finale scritto da Wilde è una chiusura che lascia il lettore in lacrime con solo una piccola luce nel petto a scaldare il cuore. La regista Clio Barnard ci lascia l'amaro in bocca nella consapevolezza che questi bambini ci saranno sempre e che continueremo a passar loro accanto indifferenti o cercando di non vedere perché la nostra tranquillità non venga intaccata da scomode  realtà.

lunedì 22 settembre 2014

Caramel di Nadine Labaki

Sukkar banat, di Nadine Labaki (2007) Sceneggiatura di Rodney El Haddad, Jihad Hojeily, Nadine Labaki Con Nadine Labaki, Yasmine Elmasri, Joanna Moukarzel, Gisèle Aouad, Adel Karam, Sihame Haddad, Aziza Semaan, Fatmeh Safa, Dimitri Staneofski, Fadia Stella, Ismaïl Antar, Yousra Karam, Victoria Bader Musica: Khaled Mouzannar Fotografia: Yves Sehnaoui (95 minuti) Rating IMDb: 7.3
« Il mondo può essere girato in dodici ore, dal tramonto all'alba, con uno spostamento minimo eppure immenso: basta andare da Beirut Est a Beirut Ovest, in senso orario. Tutto in una notte: ogni lingua e ogni fede, ogni possibile desiderio e la sua castrazione, il progetto di essere altrove e l'orgoglio di trovarsi qui (esistere è, in parte, resistere), la guerra che continuerà finché un locale ne sfrutterà il ricordo e la pace come oggetto di lusso effimero e trasferibile, Dio e il teorema del seno perfetto, lo sceicco dei corridori e il distratto santo protettore di tutti quelli che si sono imbarcati con il talento che avevano e, yalla!, hanno fatto rotta verso gli scogli. »
Così Gabriele Romagnoli ci racconta Beirut nel suo libro Beirut, il mondo in una notte.

A Beirut, una città apparentemente moderna sostare in macchina, di notte è un “reato”, l’omosessualità è un tabù, essere amanti è impossibile e per prenotare una stanza, viene richiesto il certificato di matrimonio. In questa città Nadine Labaki gira il suo delicatissimo film, Caramel. Un film dolce, apparentemente leggero che alla violenza di una città, da sempre in guerra, contrappone il desiderio forte e determinato di vivere una vita normale e in cui non si perdano il valore dell’amicizia e della solidarietà: un film tutto al femminile.
Cinque donne lavorano nel salone di bellezza “Si belle”, un microcosmo colorato e vitale, un luogo allegorico, da cui l'intreccio narrativo parte e dove si compie.
Lavale, la padrona del salone, (impersonata dalla regista) è perdutamente innamorata di Rabih, un uomo sposato, ed è sempre in attesa di un segnale (il più delle volte un colpo di clacson) o una telefonata che il più delle volte non arriva. E’ una donna giovane di circa 30 anni, cristiana, vive ancora con i suoi genitori, come effettivamente accade a tutte le donne giovani e celibi in Libano. E’ una donna in conflitto come del resto tutte le altre protagoniste: da un lato c’è la sua famiglia che non vuole deludere, la sua religione, un bozzolo protettivo e, d’altro lato, c’è l’uomo dal quale lei è completamente dipendente e che rappresenta la trasgressione
Un altro personaggio è Nisrine, una giovane musulmana che sta per sposarsi ed è angosciata da un problema: la prima notte di nozze suo marito scoprirà che lei ha già perduto la verginità. Solo confidandosi con le amiche, troverà la soluzione: un intervento di "rivergination".
Rima è un personaggio più appartato e silenzioso: è una giovane di 24 anni che nel salone fa gli shampoo. E’ una donna che ancora sta cercando la sua identità: si accorge di essere sempre più attratta dalle donne, ma non vuole ammetterlo ed accettarlo, anche perchè vive in un mondo dove l’omosessualità non è né concepita né accettata come modo di essere.
Jamale Tarabay, non più giovanissima, è talmente ossessionata dallo scorrere del tempo e dalla inesorabile decadenza fisica che usa tintura rossa e assorbenti per simulare mestruazioni che non ha più, visto che è ormai in menopausa. Jamale desidera essere un’attrice perché, dopo aver dedicato l’intera vita ai suoi figli, desidera rifarsi una vita anche perché suo marito l’ha lasciata per una donna più giovane e vuole fare l’attrice, ma costantemente impegnata a fare provini, deve competere con altre giovani donne e questo le provoca non poche frustrazioni.
Ed infine Rose, una dolcissima ormai anziana sarta che ha sacrificato i suoi anni migliori e la sua felicità per occuparsi della sorella maggiore. Rinuncerà al suo riscatto amoroso tardivo, per dedicarsi esclusivamente alle cure della sorella Lili che è un po’ fuori di testa. Quando viene a contatto con Charles, sente il cuore batterle per amore, ma il senso di rinuncia e sacrificio prendono il sopravvento. “In Libano dopo una certa età, - dice la regista - quando una donna è vedova, divorziata o “zitella”, le convenzioni non le permettono più di innamorarsi, perché il rischio è rendersi ridicole… in questa società chiusa, è la stessa famiglia che ti fa sentire colpevole”.
Il personaggio di Lili, la sorella, è tratto da una storia vera. La donna da giovane si era innamorata di un ufficiale francese che dopo aver lasciato il Libano le aveva scritto ogni giorno lunghe lettere, ma le lettere venivano quotidianamente intercettate dalla famiglia di lei.
Quando Lili lo scoprì era ormai troppo tardi e la sua vita bruciata. Da quel momento la vediamo in ricerca continua delle sue lettere che identifica in ogni pezzo di carta che trova anche per la strada. Una donna persa nel sogno che le convenzioni e i pregiudizi le avevano impedito di vivere.
09
E poi c’è la bellissima e misteriosa donna che passa di tanto in tanto nel salone di cui non si sa nemmeno il nome! È l’esempio della donna perfetta. Lei è tutto quello che un uomo potrebbe desiderare. Ma ci renderemo presto conto che è incredibilmente frustrata e triste, come molte donne libanesi che lasciano da parte le loro personalità per conformarsi all’immagine che è prevista per loro.
 
Al salone, dunque, tra colpi di spazzola e il profumo di caramello sui baffi, si parla di se stesse, si scambiano confidenze che si raccontano con la libertà e l’intimità propria delle donne tra cui sa nascere una forte complicità.
Nel film trovano spazio tematiche importanti come l'amore, l'importanza per una donna di trovare marito, le contraddizioni della religione, la tradizione familiare: molto bello il dialogo tra la madre della promessa sposa e la sposa Nisrine nel giorno del suo matrimonio.
In tutte le donne c’è un desiderio di ricercare la propria identità che però è sempre in qualche modo frenato dalla paura di abbandonare e di tradire la tradizione: una donna, quindi, in quell’eterno conflitto che deriva dalla voglia di emanciparsi, di recuperare uno spazio di libertà ed il richiamo forte e a volte pressante di una tradizione che se non rispettata può avere conseguenze gravi.
Non a caso il film terminerà con il matrimonio di Nisrine e la sua festa.
“In questo mondo tipicamente femminile, queste donne - che soffrono dell’ipocrisia di un sistema orientale di fronte all’apertura occidentale - si aiutano ad affrontare i problemi che incontrano con gli uomini, l’amore, il matrimonio e il sesso… Oggi, in quella parte del mondo, il Libano appare come esempio di un paese aperto, libero e con una società emancipata. Ma questo non sempre è vero. Dietro la facciata, le donne sono ancora costrette a molti vincoli, al continuo timore degli sguardi della gente ed al loro giudizio. In questo contesto, le donne libanesi si consumano dai sensi di colpa e dai rimorsi. Nel salone di bellezza, le mie eroine si sentono al sicuro. È un posto in cui, anche se affrontano argomenti intimi e privati, non si sentono mai giudicate. La donna che ti taglia i capelli ti mette a nudo, in tutti i sensi, e quello è quindi un momento in cui non si può truffare. A poco a poco, ci apriamo e gli raccontiamo le nostre vite, i timori, i progetti, le tresche amorose…
Ma nel film non si demonizza il maschio anzi dice la regista: "Nel film i maschi sono tutti amichevoli, il poliziotto, il promesso sposo, il signore anziano… L’unico bastardo è l’amante di cui non vediamo mai la faccia. Quella è stata una scelta precisa perché il modello di marito con amante esiste in ogni paese nel mondo. Gli altri uomini sono invece come li vorrei. Il poliziotto ci sorprende col suo romanticismo e la sua sensibilità. Charles, l’uomo anziano che s’innamora di Rose, è elegante e pieno di tenerezza. E infatti, gli uomini libanesi stanno avendo qualche crisi di identità… "
Il titolo “CARAMEL” è la tipica ceretta per la depilazione che si usa in Medio Oriente, una miscela di zucchero, limone e acqua, che portata ad ebollizione si trasforma in caramello. Questa miscela si lascia poi raffreddare sul marmo. Si trasforma così in una pasta adesiva che rimuove i peli superflui. Ma il caramello, seppur squisito e dolce, può bruciare e farti male.
Da sottolineare che nessun attrice, ad eccezione della regista, è una professionista e devo dire che non l'avrei mai detto.