giovedì 3 gennaio 2013

City of Life and Death di Lu Chuan


City of Life and Death, un film di Chuan Lu. Con Ye Liu, Yuanyuan Gao, Wei Fan, Hideo Nakaizumi, Yiyan Jiang. Titolo originale Nanjing! Nanjing!. Drammatico, durata 132 min. - Cina 2009. IMDb 7,6 

Alla fine del 1937, dopo la caduta di Pechino e Shanghai, l’esercito giapponese è alle porte di Nanchino, l’allora capitale della Repubblica di Cina.
Il generale Iwane Matsui diede l'ordine di prendere la città con la forza. Il 12 dicembre, dopo due giorni di attacchi giapponesi, sotto il fuoco dell'artiglieria pesante e di bombardamenti aerei, il generale cinese Tang Sheng-chi ordinò ai propri uomini di ritirarsi.
Inizia l’assedio e la conquista  di Nanchino, le immagini in  bianco e nero passano implacabili sotto i nostri occhi  e ci presentano solo più le macerie fumanti di una città, di un popolo sconfitto ma non piegato, un paesaggio deserto costellato di morti abbandonati in ogni cortile, in ogni angolo.
Le scene degli ultimi scontri per la difesa della città sono nella loro crudezza splendide dal punto di vista fotografico. Nanchino come una Stalingrado d’oriente: scontri feroci tra le macerie, cecchini appostati in luoghi insospettabili, mezzi blindati in strade dissestate e deserte che fanno fuoco sulle residue sacche di resistenza, grappoli di civili inermi asserragliati nelle chiese, rappresaglie di sconvolgente ferocia.
Lungo la strada da Shanghai a Nanchino, i soldati giapponesi si resero responsabili di numerose atrocità. Gli orrori si susseguirono colpendo indiscriminatamente militari e civili, in un'escalation di terrore diffuso che cadde in poco tempo su tutta la città, allora capitale della nazione cinese. Fucilazioni di massa. Esecuzioni programmate con metodi barbari. Teste dei nemici appese agli angoli delle strade.
E durante questo spietato inferno, si distinguono qua là degli uomini e delle donne: il primo è il giovane generale Lu (Liu Ye), tra gli ultimi ad arrendersi, che conserva la sua dignità, cercando di regalare quel tanto di calore umano al bambino combattente in procinto di essere giustiziato con gli altri. 
Il film si basa su testimonianze dirette. Esse ci raccontano che corso delle sei settimane che seguirono la caduta di Nanchino, le truppe giapponesi si abbandonarono a stupri, omicidi e furti e appiccarono incendi. Molti furono i resoconti degli stranieri che rimasero ed aiutarono i civili cinesi, come i diari di John Rabe e Minnie Vautrin,  di sopravvissuti al massacro, di giornalisti occidentali e giapponesi, oltre ai diari di campo di membri del personale militare. 
« È una storia orribile da raccontarsi; non so come iniziare né come finire. Non avevo mai sentito o letto di una tale brutalità. Stupri: stimiamo che ce ne siano almeno 1.000 per notte e molti altri durante il giorno. In caso di resistenza o qualsiasi segno di disapprovazione arriva un colpo di baionetta o una pallottola. »
(James McCallum, in una lettera alla famiglia, 19 dicembre 1937)

« Probabilmente non c'è crimine che non sia stato commesso in questa città oggi. Trenta ragazze sono state catturate nella scuola di lingue la scorsa notte, e oggi ho sentito storie strappacuore di ragazze rapite dalle loro case: una di esse non aveva più di dodici anni. Oggi è passato un camion su cui c'erano 8 - 10 ragazze che ci hanno gridato "Jiu ming! Jiu ming!" - salvateci la vita! »
(Dal diario di Minnie Vautrin, 16 dicembre 1937)
Il missionario statunitense John Magee riuscì a girare un documentario in 16mm e a scattare fotografie del massacro. 
A prendere le difese dei cinesi ci fu il funzionario della Siemens John Rabe che creò il Comitato internazionale per la zona di sicurezza di Nanchino. Il comitato istituì la zona di sicurezza di Nanchino nel quartiere occidentale della città. Il governo giapponese acconsentì a non attaccare le parti della città dove non si trovava l'esercito cinese e i membri del comitato riuscirono a convincere il governo cinese a spostare tutte le truppe al di fuori di quella zona. Si stima che in questo modo Rabe abbia salvato da 200.000 a 250.000 cinesi.
Durante, però, il periodo di caos che seguì il momento dell'attacco, alcune persone furono uccise anche all'interno della zona.
Il Tribunale Militare Internazionale per l'Estremo Oriente ha calcolato che vennero stuprate 20.000 donne, tra le quali anche bambine e anziane.
Gli stupri spesso avvenivano in pubblico, anche di fronte ai mariti costretti a guardare. Le donne venivano spesso uccise subito dopo lo stupro, spesso infliggendo loro mutilazioni.

La guerra che Lu Chuan racconta è un movimento collettivo dove si è perso il senso dell'uomo e del suo valore. I civili diventano testimoni dell’apocalisse, per loro non c'è riparo, neanche tra le mura della chiesa, imprigionati in un recinto, in attesa di qualcosa che non può che essere terribile.
E per salvarsi qualcuno tradisce gli altri, altri, invece, si immolano per risparmiare delle vite, a testimonianza che anche in situazioni estreme è possibile scegliere, è possibile che qualche gesto umano ci aiuti ancora a credere nella vita.
Anche tra i giapponesi il regista metterà in evidenza un ufficiale, Kadokawa, che rimarrà scosso da tanta brutale violenza in cui si tenta di coinvolgerlo e sarà in grado di piccoli gesti di umanità per spezzare la catena di eventi di così efferata crudeltà.
Lu Chuan condanna la violenza. Il film è un disperato urlo di dolore, che disperatamente cerca di rintracciare una pur fievole barlume di speranza. Fino a quando l'uomo è capace di atti di umanità in questi tragici eventi, forse possiamo ancora credere nella vita.
Spoglio, scabro, crudo, pressoché muto, City of Life and Death, si affida pressoché interamente alle immagini: immagini di corpi straziati, di volti disperati, di gesti. I loro occhi ci guardano, la loro disperazione ci interpella e l'ultima scena ci apre gli occhi sulla follia della guerra: i soldati giapponesi mettono in scena  una danza celebrativa, un rituale privo di senso e di vita, la danza del finale di City of Life and Death dove l’esercito giapponese sfila tra le strade deserte senza vita.
Più volte si vorrebbe distogliere lo sguardo, alzarsi e non guardare più, ma poi si pensa che questo episodio drammatico, e tanti altri episodi drammatici, si compiono senza che nessuno ne sappia o ne voglia sapere niente. Ed allora si comprende che la memoria non è sterile, che la memoria può aiutarci a muovere ogni nostro passo per la costruzione della pace.

“La vita è più difficile della morte”, dice alla fine il soldato giapponese Kadokawa, e certamente esprime ciò che ogni uomo degno di questo nome sente in una situazione come quella raccontata nel film. La vita richiede scelte a volte molto coraggiose. Come dice Marìa Zambrano, la pace non è solo assenza di guerra:
"la storia ha dimostrato che i timori più fondati sono stati annullati in un attimo di pazzia. [...] E così, non si avrà uno stato di vera pace fino a che non vi sia una morale vigente e effettiva incamminata verso la pace, fino a che le energie assorbite dalla guerra non vengano incanalate, fino a che l'eroismo non incontri vie nuove, l'eroismo di coloro che basano sulla guerra il compimento della loro vita, fino a che la violenza non sia cancellata dai costumi, fino a che la pace non sia una vocazione, una passione, una fede che ispira e illumina".

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