Un film di Abbas Kiarostami. Con Farhad Kheradmand, Puya Paevar Titolo originale Zendeg edamé dârad. Drammatico, durata 91' min. - Iran - 1992 -IMDb 7,8/10
E' il terremoto che suggerisce l'idea ad Abbas Kiarostami di girare il film "E la vita continua". Un terremoto nel 1990 ha devastato e ha fatto decina di migliaia di vittime nella regione del Gilan in Iran, proprio dove era stato girato "Dov'è la casa del mio amico?".
E' il terremoto che suggerisce l'idea ad Abbas Kiarostami di girare il film "E la vita continua". Un terremoto nel 1990 ha devastato e ha fatto decina di migliaia di vittime nella regione del Gilan in Iran, proprio dove era stato girato "Dov'è la casa del mio amico?".
"Nei miei film la morte e' spesso presente. - dice Kiarostami - Mi e' rimasta negli occhi dopo il terremoto del ' 90. I sopravvissuti stendevano teli sui cadaveri, quasi a coprire la morte, a cancellarla. Ma la vita, prepotente, spunta ovunque e, come dice un' altra poesia, di Omar Khayyam, va colta e gustata come una coppa di vino".
Morte e vita sono il filo conduttore del film e si mescolano: si pensa a ciò che è stato distrutto, a chi è si è perso, ma nello stesso tempo si guarda la vita che continuamente rinasce.
"La verità è che questo disastro ci ha colpito come un lupo affamato che attacca un gregge di pecore, alcune le lacera con gli artigli, altre le risparmia", è un vecchio tra le tante persone che incontra nel viaggio, a parlare ed in lui trapela la disperazione, ma nello stesso tempo la rassegnazione ad un destino a cui non si può sfuggire.
Il regista (impersonato dall'attore Farhad Kheradmand) decide di recarsi, assieme al figlio Puya, a cercare i due bambini che hanno girato con lui il film "Dov'è la casa del mio amico". Il suo sarà un lungo viaggio nelle terre dove il sisma ha maggiormente colpito.
"E la vita continua" può essere considerato un road movie: lo spettatore assiste: il finestrino dell’auto non è altro che lo schermo cinematografico attraverso il quale scorre il mondo. Attraverso la Renault, metafora dello strumento cinematografico, il regista indaga la realtà, ma allo stesso tempo ne mantiene le distanze.
Il regista viaggia attraverso macerie, cumuli di detriti, tendopoli dove chi non è morto cerca il modo per sopravvivere a tanto disastro. Le immagini scorrono una dopo l'altra e ci testimoniano la desolazione, ma nello stesso tempo anche la voglia di ricominciare, nonostante tutto, a vivere.
Il viaggio si dipana fra colline spoglie, alture rocciose, strade polverose, piantagioni di ulivi, greggi di pecore.
"La natura ha un ruolo determinante nella mia vita, - dice il regista - nel mio occhio, nel mio cinema. Per questo mi piace la fotografia, per questo le mie fotografie ritraggono solo scenari, squarci di paesaggi, cieli, viottoli, ruderi. I rapporti metropolitani mi sembrano sempre più faticosi." La natura sembra non essere toccata dagli eventi, segue il suo corso indifferente a quello che capita agli uomini.
Il viaggio prosegue, ma si rivela ben più difficile del previsto: l'unica strada è impraticabile e l'automobile con i due protagonisti a bordo è costretta a innumerevoli deviazioni fra colline e macerie.
La nostra vita è fatta di tanti piccoli episodi che si inanellano l'uno con l'altro e di cui a volte non scorgiamo il significato perchè non ci soffermiamo a guardare e a riflettere. Ogni evento può diventare insignificante se lo guardiamo con indifferenza o tutto può acquistare significato se ci soffermiamo, se lo guardiamo con occhio attento. E' quello che sa fare Puya, un bambino curioso, capace di meravigliarsi, un bambino che vuole scoprire la vita e che la vita interroga continuamente. In tutto il film la sua voglia di sapere sarà al centro dell'attenzione e il papà risponderà pazientemente alle sue domande come può, ma a volte dovrà semplicemente dire: "non so" soprattuttto trovandosi di fronte ad eventi che lasciano sempre sgomenti e che suggeriscono domande e non risposte. "Qule strada prendiamo, papà" "Non lo so, ma una la troveremo". Il bambino non ha bisogno di risposte certe, ma deve aver fiducia in chi lo sta guidando. "Non lo so, ma una la troveremo". Il bambino non ha bisogno di risposte certe, ma deve aver fiducia in chi lo sta guidando.
Durante il cammino il regista si ferma, scende dalla macchina ed entrare in un bosco. Lì trova un bambino solo che piange. L'uomo si impietosce e si ferma a cullarlo. Il bambino si calma. Più in là compare la mamma che è andata a raccogliere legna. Il regista sente il proprio figlio che lo chiama e corre da lui. La mamma si affretta dal suo piccolo e lo culla amorevolmente. E' di nuovo il richiamo della vita che sollecita l'attenzione e la presenza vigile dell'adulto.
La tortuosità del tragitto è a suo modo iniziatica, prova dopo prova, deviazione dopo deviazione, ripetizione dopo ripetizione, blocco dopo blocco: così è anche la vita che non scorre quasi mai lungo una linea retta.
Kiarostami ci porta pian piano ad osservare, ad ascoltare, a guardare con spirito di partecipazione tutto ciò che incontra. La morale di "E la vita continua" è ben spiegata dal suo titolo, ma ogni immagine, ogni dialogo è vissuto con quella partecipazione discreta che aiuta coloro che incontrano ad aprirsi.
Incontrano gente che cammina alla ricerca di un luogo dove fermarsi perché le loro case, i loro villaggi sono rimasti distrutti. Ognuno di loro ha perso qualcosa e qualcuno. A una donna il regista chiede la strada, ma lei ha un groppo in gola e racconta la propria desolazione e smarrimento.
"Ho perso 16 persone, - gli dice - sono rimaste intrappolate sotto le macerie. Mi rimane solo una casa distrutta". Il dolore entra prepotente dentro la macchina e ci lascia senza parole: solo il silenzio può accogliere una sofferenza a cui non c'è risposta né rimedio. Ma la donna non chiede consolazione, solo ascolto.
Le strade, nella poesia classica iraniana, hanno a che vedere con l'andare, il migrare, il distacco, sono il simbolo della vita stessa, con il suo trascorrere tra gioia e dolore, tra serenità e smarrimento: le strade attraversano montagne impervie e dolci colline.
La tortuosità del tragitto è a suo modo iniziatica, prova dopo prova, deviazione dopo deviazione, ripetizione dopo ripetizione, blocco dopo blocco: così è anche la vita che non scorre quasi mai lungo una linea retta.
Kiarostami ci porta pian piano ad osservare, ad ascoltare, a guardare con spirito di partecipazione tutto ciò che incontra. La morale di "E la vita continua" è ben spiegata dal suo titolo, ma ogni immagine, ogni dialogo è vissuto con quella partecipazione discreta che aiuta coloro che incontrano ad aprirsi.
Incontrano gente che cammina alla ricerca di un luogo dove fermarsi perché le loro case, i loro villaggi sono rimasti distrutti. Ognuno di loro ha perso qualcosa e qualcuno. A una donna il regista chiede la strada, ma lei ha un groppo in gola e racconta la propria desolazione e smarrimento.
"Ho perso 16 persone, - gli dice - sono rimaste intrappolate sotto le macerie. Mi rimane solo una casa distrutta". Il dolore entra prepotente dentro la macchina e ci lascia senza parole: solo il silenzio può accogliere una sofferenza a cui non c'è risposta né rimedio. Ma la donna non chiede consolazione, solo ascolto.
Le strade, nella poesia classica iraniana, hanno a che vedere con l'andare, il migrare, il distacco, sono il simbolo della vita stessa, con il suo trascorrere tra gioia e dolore, tra serenità e smarrimento: le strade attraversano montagne impervie e dolci colline.
"Il mio cinema è pieno di strade. Hanno un significato profondo nella poesia iraniana perché alludono alla nascita e alla morte. Nella nostra vita, quando affrontiamo i momenti difficili, è come se superassimo delle colline, delle strade irte e difficili". Ogni strada, sostiene Kiarostami, “è colma di storie e di esseri umani che le hanno attraversate”.
Incontrano gente che cammina alla ricerca di un luogo dove fermarsi perché le loro case, i loro villaggi sono rimasti distrutti.
E i bambini che sta cercando saranno ancora vivi i bambini? o il terremoto se li è portati via?
Poi quasi a cercare pace e consolazione i suoi occhi cadono sulla finestra di una casa diroccata che si apre su un prato verde illuminato dal sole. Il regista sale su quel resto di casa a contemplare quella natura che sola può donare un po' di serenità necessaria per ritrovare il senso della vita.
Guarda poi un manifesto appeso alla parete. E’ un’ immagine emblematica del contadino felice molto diffusa in tutte le case iraniane. Con la sua tazza di tè, un pezzo di pane, un po’ di carne, la sua pipa o più precisamente la sua chopoq. Nell’immaginario della gente è l’immagine ideale del contadino nel momento più felice della sua vita. Anche se nel terremoto ha perso tutto, il regista dice: “il suo stato d’animo è rimasto lo stesso. E’ per questo che in Iran questa immagine è stata il manifesto del film sulla quale avevo aggiunto: ‘la terra ha tremato, ma noi non abbiamo tremato'.
"Io non penso mai che sto rappresentando la mia cultura o il mio paese. Ma sarebbe strano che il risultato non sia questo. Ogni artista ha il dovere di rappresentare la sua realtà e il suo tempo, ma senza proporselo come fine. I sentimenti umani vanno oltre i decenni e non appartengono a una sola terra. I problemi immediati non hanno molta importanza; materia per l' artista è l' uomo con i suoi problemi profondi, non quelli della superficie del vivere". "Raccontando i piccoli episodi e i piccoli dolori della vita quotidiana, io parlo dei problemi più profondi dell' uomo".
Un bellissimo film, un toccante viaggio in mezzo ai disastri di un dopo terremoto, noi sappiamo cosa vuol dire purtroppo come viene raccontato su La repubblica e sull'Espresso inchiesta.
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