Regia e sceneggiatura: Bahmam Ghobadi. Fotografia: Saed Nikzart. Musica: Hossein Alizadeh. Montaggio: Samad Tavazoi. Interpreti: Nezhad EkthiarDini, Amaneh EkthiarDini, Ayoub Ahmadi, Jouvin Younessi, gli abitanti delle città di Sardab e Banè. Produzione: Bahaman Ghobadi. Origine: Iran 2000. Durata: 80'
"Il film è tratto da una storia vera. Due anni fa, durante le ricerche di una location per uno dei miei cortometraggi, incontrai alcune persone che contrabbandavano merci fra il Kurdistan Iraniano e il Kurdistan Iracheno. Realizzai un corto dal titolo Life in Fog, che ebbe molto successo in vari festival internazionali. Quindi studiai da vicino le famiglie di questi adolescenti e decisi di lavorare con loro su un'altra sceneggiatura (…). Avevo già girato parecchi cortometraggi interamente autofinanziati, a parte alcuni piccoli fondi regionali. Per il mio primo film a soggetto, che è durato un anno di riprese, ho incontrato molti problemi. Durante la lavorazione un produttore mi ha promesso che avrebbe investito del denaro, ma alla fine ci ha ripensato … Quindi ho dovuto chiedere prestiti a tutte le persone del villaggio e vendere persino alcune cose di loro proprietà … L'intera postproduzione è stata un incubo. Quando la Quinzaine des Réalisateur ha selezionato il film [il film ha ottenuto il Premio Camera d'or al Festival di Cannes 2000, ndr] sulla base di una copia senza musica né effetti sonori, sono stato talmente felice che ho ritrovato l'energia per mettermi alla ricerca dei soldi necessari ad ultimare il film. Devo ammettere che ora sono pieno di debiti … in Iran, non appena saputo che il film andava a Cannes, ovviamente hanno alzato i prezzi! (…). Durante le riprese mi sono reso conto che oltre ai contrabbandieri che affrontano le montagne innevate e mille altri pericoli, anche gli animali soffrono molto. Per far sì che resistano al freddo e a carichi pesanti che sono costretti a trasportare i loro padroni aggiungono dell'alcool nel loro cibo. Quindi i cavalli si trovano spesso in uno stato di involontaria ubriachezza" (dichiarazioni del regista Bahman Ghobadi).
I Curdi sono un popolo senza Stato, forse la più grande popolazione senza Stato del mondo, che conta oltre 30 milioni di persone.
Il Tempo dei Cavalli Ubriachi è un film su questo popolo dimenticato, che viene ricordato solo per gli atti di terrorismo delle sue frange più estreme. E' un film sulla povertà di questa gente, di bambini la cui infanzia è stata rubata. Un film che racconta una realtà dove il valore delle piccole cose è estremamente importante. Un film su una terra ostile, dove un raggio di sole è salutato come un dono di Dio e dove qualsiasi gesto, azione o accadimento è finalizzato alla sopravvivenza.
Parla di una terra dove non esiste il superfluo ma solo l'essenziale.
Quello descritto nel film è un mondo di bambini costretti a diventare adulti troppo presto, dove ogni giorno si può restare orfani o saltare su una mina, e dove un quaderno, come quello che Ayoub regala ad Amaneh, sembra il dono più prezioso. Sono solo dei bambini, ma lavorano come e quanto possono. Incartano bicchieri al mercato affinché non si rompano durante il trasporto o caricano sulla schiena enormi fagotti per poter guadagnare qualche soldo.
Il finale è aperto, lasciando spazio alla speranza ma facendo anche intuire che le sofferenze non sono finite.
La camera a mano di Ghobadi scava nella sofferenza dei personaggi in un film crudo, senza pretese poetiche ma con il dichiarato obiettivo di denunciare le sofferenze di un intero popolo.
Bahaman Ghodabi, regista curdo-iraniano, già aiuto del più famoso Abbas Kiarostami, maneggia la camera con parsimonia e asciuttezza. Non c'è teatralità nel suo modo di raccontare, non ci si abbandona all'autocommiserazione, né all'indulgenza. Racconta una storia vera dove la poeticità è nella storia, nel susseguirsi dei tragici eventi che la caratterizzano. Il suo è un film essenziale e autentico. Vere sono le espressioni degli attori (che interpretano se stessi), veri sono i loro dolori e le loro piccole gioie. Vera è la felicità del bimbo malato quando osserva il manifesto di un culturista regalatogli dal fratello.
Questo piccolo film racconta la storia (vera) di una famiglia curda alle prese con le quotidiane vicende di povertà e miseria aggravate dalla malattia di uno dei 5 figli che necessita di cure e di un'operazione urgente per poter sopravvivere. L'unico figlio maschio sano, dopo la morte di entrambi i genitori, si assume le gravose responsabilità della famiglia e lavora come trasportatore di merci viaggiando sul montagnoso confine tra l'Iran e l'Iraq. Il tempo dei cavalli ubriachi narra quindi la vicenda dei bambini curdi alla frontiera tra Kurdistan iraniano e Kurdistan iracheno.
Madi soffre di una grave malattia, non può camminare e viaggia solo sulle spalle degli altri o dentro un sacco messo a penzolare sul fianco dei cavalli. La medicina che gli garantisce la sopravvivenza è molto costosa e l'unica possibilità di farcela è legata ad un intervento chirurgico da compiere il prima possibile. Ma nonostante gli sforzi del fratello che si industria in una quantità di faticosissimi lavori, la famiglia non riesce a mettere da parte i soldi sufficienti. Così è la sorella più grande ad accettare di sposare un iracheno che pare disposto ad aiutarli economicamente. Ma alla frontiera la famiglia del futuro consorte si rifiuta di continuare il viaggio insieme al ragazzo malato. In cambio gli offrono un cavallo.
Ed è aggrappato alla bestia, ubriaca dall'alcol per sopportare il freddo rigidissimo e i carichi pesanti, che Madi e il fratello riescono a passare dall'altra parte del Kurdistan.
Uno dei punti di forza del film è rappresentato dai giovani attori che interpretano semplicemente loro stessi e rendono questo film ancora più profondo ed importante. Una vicenda toccante ed amarissima raccontata con estrema dignità, senza mai inciampare nel patetico o nella banalità del sentimentalismo. C’è un certo rigore nell’occhio di Ghobadi, una serietà che si ritrova sia nelle immagini che nei dialoghi. Una serietà che non è distacco né freddezza, ma puro desiderio di mostrare quanto è necessario, senza speculare sul dramma di bambini sofferenti o sulla tragedia di un popolo dimenticato.
«Avevo già girato diversi cortometraggi interamente autofinanziati. Ho vinto dei premi che mi hanno permesso di continuare a lavorare. Ma per questo primo film a soggetto, che ha richiesto un anno di riprese, ho avuto molti problemi e l'intera produzione si è rivelata un incubo. Quando però a Cannes è stato selezionato sulla base di una copia senza musica né effetti sonori, sono stato cosi contento che ho ritrovato l'energia per cercare fondi necessari a ultimare la pellicola».
L’intento del regista, qui al suo esordio, era la volontà di documentare, di rendere visibile, il suo popolo, un popolo che continua ad essere invisibile, assente, raccontato poco e male, privato di una rappresentazione corretta e adeguata. In una sola immagine riesce a raccontare il senso profondo di quella realtà: quella in cui Madi siede da solo sulla neve mentre si odono le voci delle due famiglie che, a poche decine di metri di distanza, discutono del suo destino. Madi è il popolo curdo: zoppo, inerme, abbandonato, sull’orlo della sopravvivenza.
L’intento del regista, qui al suo esordio, era la volontà di documentare, di rendere visibile, il suo popolo, un popolo che continua ad essere invisibile, assente, raccontato poco e male, privato di una rappresentazione corretta e adeguata. In una sola immagine riesce a raccontare il senso profondo di quella realtà: quella in cui Madi siede da solo sulla neve mentre si odono le voci delle due famiglie che, a poche decine di metri di distanza, discutono del suo destino. Madi è il popolo curdo: zoppo, inerme, abbandonato, sull’orlo della sopravvivenza.
Questo piccolo film, vincitore della Camera d'Or al festival di Cannes 2000, ha però ottenuto un effetto straordinario. Il piccolo Madi è stato operato nel Kurdistan iraniano da un equipe medica italiana, facente parte di un'organizzazione di volontariato denominata WOPSEC.
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