In Brasile
nel 1970 c'era una dittatura militare iniziata nel marzo del 1964 che duròfino al 1985. Una dittatura che arresta, tortura, uccide. Una
dittatura di cui forse si è poco parlato, ma che molti brasiliani non
dimenticano. Passando davanti ad una caserma a Rio, una mia amica mi diceva
sempre: qui si sentivamo venir fuori le urla di chi veniva torturato.
Una nazione
intera, in quello stesso anno, si prepara ai mondiali di calcio che saranno vinti dalla
nazionale brasiliana. L’entusiasmo unisce tutti. Impossibile, d’altro canto,
non perdere la voce dietro alle prodezze di Pelé, Carlos Alberto, Tostão,
Gérson e Rivelino: la più grande nazionale che il paese avesse mai avuto che,
proprio nell’estate di quell’anno, si apprestava a vincere la sua terza coppa
del mondo.
Mauro è un
ragazzino figlio di attivisti di sinistra, passa gran parte del suo tempo a
curare la sua collezione di figurine e giocare con accendini, bottoni e
monetine, simulando sul tavolo le gesta di Pelè e Tostao. Il suo sogno è vedere
il Brasile alzare per la terza volta la Coppa del Mondo.
E’ in questa
cornice che Cao Hamburger ci regala una delle più belle pellicole di Berlino
2007: “E’ un film sull’esilio – sui vari tipi di esilio – sulla scoperta della
transitorietà della vita da parte del protagonista, che impara a conoscere gli
altri e a sopravvivere in un mondo nuovo”.
Mauro, infatti,
si troverà solo. I suoi genitori partono per “una vacanza” e lo portano a
vivere col nonno. Da Belo Horizonte vanno a San Paolo, quartiere Bom Retiro
abitato in prevalenza da una comunità ebraica (il padre di Mauro è ebreo, la
madre no) di quasi solo anziani che parlano yiddish: molti dei suoi
membri sono sfuggiti all'Olocausto.
Lì lo ospiterà
il nonno in attesa del loro ritorno, lo rassicurano i genitori. Lui è perplesso, non capisce cosa
sta succedendo ma i suoi hanno una gran fretta e il padre gli promette di rientrare
per la prima partita dei mondiali.
Lo lasceranno
sotto la casa del nonno, ma, quando Mauro suonerà alla porta, non troverà
nessuno a rispondergli. Si siede per terra ed aspetta fino a quando non
arriverà il vicino Shlomo di casa che gli comunica una brutta notizia: il nonno
nel frattempo è morto di infarto nel suo negozio di barbiere.
Shlomo lo
ospiterà casa sua, ma il rapporto non è per niente facile, tanto che l’uomo si
rivolgerà al rabbino per avere aiuto, ma la risposta sarà lapidaria: “se Dio lo
ha lasciato davanti alla tua porta deve sapere quel che fa». E forse viene da
pensare, lo sapeva davvero.
Sarà difficile per Muro accettare la situazione, solo una bambina, Hana, lo aiuterà ad aprirsi grazie alla sua amicizia.
La piccola Hana lo aiuterà ad uscire, gli fa conoscere dei
coetanei, e insieme, ebrei, italiani, greci si uniscono per tifare per i
verde-oro che marciano verso il trionfo finale, contro l'Italia, sconfitta 4 a
1. La sua sarà un'estate di scoperte, di momenti anche felici, di nuove
conoscenze, di amicizie vere.
Tutta la
comunità ebraica accoglie Mauro senza indottrinarlo o costringerlo a sposare la
propria fede, limitandosi a cambiare il suo nome in Moishele, ovvero colui che
è stato salvato dalle acque del Nilo galleggiando in un cesto di canne.
Sono proprio
loro che lo salveranno, prima di tutto Shlomo che si affezionerà a lui e saprà
essergli vicino, poi Irene, una bella ragazza, che gestisce il bar e tutte le
famiglie che faranno a gara per farlo pranzare con loro.
Ma è l’attesa
che caratterizzerà molte sue giornate, un’attesa che si dilata nel tempo, che
ogni tanto lo induce a chiudersi in se stesso. Non parla, non racconta il suo
dolore, ma aspetta: ogni momento per lui potrebbe essere quello giusto.
Un giorno vede
un “maggiolino” uguale a quello dei suoi genitori i suoi genitori e pensa che
stiano tornando. Abbandona i compagni con cui stava giocando a pallone, la sua
passione e lo rincorre disperato: la delusione sarà grande quando capirà che non sono loro.
Al di là delle
esplosioni di felicità ed euforia per un gol segnato dalla nazionale di calcio,
il dolore del ragazzo, e la tensione del paese sono tangibili dall'inizio alla
fine del film, eppure il regista non rinuncia ad alleggerire il tono del suo
racconto, conscio che alla vita ci si adatta qualunque essa sia, e sottolinea
come i bambini siano capaci di afferrare ciò che il giorno gli offre.
La repressione o
la violenza, latente o evidente, non entrano in campo nel film se non in un
momento della storia in cui il bambino assiste ad una retata: molti studenti
saranno brutalmente portati via.
Sarà quello il
momento in cui prenderà maggiore coscienza di dove sono finiti i suoi genitori
ed aiuterà un amico di suo padre a nascondersi prima che anche lui debba
“andare in vacanza”. A lui farà le prime domande su dove sono finiti i suoi
genitori e se ritorneranno.
Il film sa
mescolare la politica e la vita privata: la vita, nonostante tutto continua, ma
sullo sfondo quel clima politico pesante segna la vita di tutti e in questo
caso colpisce Mauro che non si rassegna, reagisce al dolore, ma ne è allo
stesso tempo attraversato. Solo una comunità solidale riesce ad attenuarne le
ferite e a dare a quel bambino la forza di crescere e di maturare.
E’ questo che mi
ha commosso e fatto più pensare. E’ questo che oggi a noi manca: la capacità di
stringerci intorno a chi ha bisogno ed è indifeso.
Ogni personaggio
è perfetto. I giovani attori sono bravissimi, In particolar modo il piccolo
protagonista (Michel Joelsas) e la amica Ana (Daniela Piepszyk), un’attrice
nata, spontanea, divertente, vera.
Michel Joelsas ed è nato a Sao Paulo nel 1995, dove ha studiato presso la scuola ebraica. Prima di entrare a far parte del cast di L'Anno in cui i miei genitori andarono in vacanza, non aveva mai fatto l'attore. E, con grande sorpresa della troupe, ha dichiarato di non pensarci affatto. Dopo il lungo periodo di preparazione e l'immersione nel set del film, Michel ha scoperto che voleva diventare direttore della fotografia. "Mi piaceva rovistare tra le cose di Adriano (Goldman, il direttore della fotografia), e ho ricevuto vari regali, come obiettivi e addirittura una telecamera. È questo quello che voglio fare quando cresco", afferma Michel, che proprio come il suo personaggio, è figlio di madre non ebrea (cattolica convertita) e padre ebreo. "Mio padre è un ebreo ortodosso, ed io, al contrario di Mauro, ho studiato in una scuola ebraica e conosco tutte le tradizioni. Questo mi ha aiutato molto a capire quello che il mio personaggio stava vivendo", racconta Michel.
Daniela Piepszyk è nata anche lei nel 1995 a São Paulo. Non aveva mai pensato di fare l’attrice. “Ero a scuola quando l’insegnante parlò dei provini. Non pensavo di essere presa, ma ho deciso di provarci lo stesso”, dice la ragazzina. “Hanna è molto intelligente. Io penso di essere abbastanza sveglia, ma non intelligente come lei. Sono molto più ingenua. Hanna alle volte può diventare molto cattiva con i ragazzi. Ma nel profondo del suo cuore le piacciono”, scherza Daniela, che proviene da una famiglia ebrea.
Daniela non aveva le caratteristiche fisiche del personaggio come descritto nella sceneggiatura dice il regista: “Il ruolo di Hanna doveva essere interpretato da qualcuno più grande e più alto di Mauro. Avevo pensato a qualcuno di completamente diverso. Ma quando ho incontrato Daniela, ho dovuto adattare il personaggio, o l’immagine del personaggio che avevo in mente. E alla fine non è stato così difficile. L’armonia tra lei e Michel era incredibile. Formano una coppia incredibile. La scelta era perfetta. In realtà non è stata neanche una scelta. Daniela e Michel si sono imposti come Hanna e Mauro”.
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